Poesie

“La poesia della settimana”

(L’assistenza infermieristica è un’arte  FLORENCE NIGHTINGALE)  

Come chiamare la vita per nome

Il riflesso degli occhi che dal vetro
parevano guardare oltre i muri
del reparto, vedere l’universo
intero in un barlume sconfinato
di pupille…

Questo dover essere confine
dello spazio ineluttabile, corpo
multiforme capace di silenzio
e pianto è il primo passo, cicatrice
che portiamo sotto pelle, tra i letti
e i corridoi, nella penombra in cui
la lingua si incrina in una contrazione,
in ogni ago, nella mano
che diventa soluzione, in ogni piano
andato storto reinventare il nome
della vita nella scintilla dentro
gli occhi, uno per uno, nella voce
che ci chiama a fronteggiare un temporale
o un fiato appena udibile come un arcobaleno.

Vogliamo toccare, vedere, siamo
dei neonati che imparano a parlare
per imitazione, abbiamo nelle tasche la vocale
giusta per ogni occasione,
la consonante spigolosa, custodite
come un amuleto per filtrare il male con la pelle,
e sulle spalle una coperta calda,
tanto larga da tenerci insieme tutti,
di fronte all’alfabeto universale.

Ognuno, come un sarto, modella
negli occhi e nelle dita il proprio metro
personale, compreso a fatica
nei sospiri che si fanno ore,
nel corpo che si muove tutto in ogni
gesto impresso alla memoria,
al desiderio di guardare al bene
che rimane. È solo questa la storia,
il mestiere: prendere ogni istante
le misure tra le pagine dei libri e l’esistenza,
il colore della voce e la parola,
la differenza tra le braccia spalancate
in una sala come principio dell’attesa;
tra il tempo nel polso che si inclina, e sfugge,
e l’orologio di rimando che trafigge
il petto, e dice che la morte non è un difetto
di fabbricazione ma un tonfo della vita
che tutta si concede in un istante.

Essere e non essere da una parte
e dall’altra dello specchio,
a convogliare l’emozione come un fiume
dentro il petto e dalla bocca indirizzare
una cascata in direzione precisa
di ogni nome, come formula
magica, adattarsi come acqua
ad ogni curva delle braccia, del corpo
che abbandona ogni riserva alla corrente
delle nostre dita, un’altra vita
che ci insegna a galleggiare;

l’ennesima equazione perfetta
di muscoli e tessuti sostituiti
alle parole: siamo destinati
dalla sorte da una parte o dall’altra
dell’uguale, cambia solo l’espressione,
la gestione delle incognite.

Come tra gli amanti, è l’intuizione
dell’amore la regola applicata,
la costante da somministrare
con la guancia appoggiata
al cuscino, nelle orecchie attonite,
in questo attimo preciso e sempre,
goccia a goccia, fino in capo al mondo
come appesi a un moto astrale, come
il mare impresso a fondo e interamente
in una lacrima.

E nel naufragio ogni segnale è buono
per portare un uomo a riva, isolare
la vita in una stella della notte
quando il sonno è un accento che si inclina
all’apertura della volta celeste,
o l’odore del fiato un panorama
intenso ma senza anima viva;
da quello della pelle che investe
le narici, intuire il sangue
che ribolle o che ristagna nelle anse,
e prevedere il nulla, da un accenno
di tosse che è una frase intera con
l’acqua alla gola, una falange che si incurva
è una lanterna che ci abbaglia come
un faro.

Siamo sempre pronti all’esplorazione:
la partenza da un punto casuale
del pianeta per vagare appesi a entrambi
gli emisferi, legati a doppio filo
alla corteccia leggera di un compagno
di viaggio, trattenerlo con coraggio
ai palmi delle mani, per volare
insieme in altri mondi, in equilibrio,
con la mente che si scioglie e in un respiro
si contiene.

Portiamo tutto l’occorrente anche
in casi eccezionali, avanziamo
a tentoni, equipaggiati ad arte,
col volto dei bambini, in piena luce,
come si fa sempre, o contro corrente,
che ci guardino negli occhi per capire,
il resto è niente.
Nel tragitto siamo ospiti
di un nuovo continente o di una casa
con le proprie leggi, coi vestiti abituali
agli ingranaggi famigliari.
Smontiamo i meccanismi rituali
agli orologi per dare al tempo un nome
buono che abbia il senso dell’istante
che ci sfugge dalle mani in un quadrante
vuoto, come fossimo artigiani
a domicilio delle ore da rimontare insieme;

e non si conta niente e non si sente
nella doppia dimensione della carta
o del televisore, non ci si riconosce
nelle immagini, ma nei mattoni muti
di una cattedrale che ci abbraccia
tutti anche se non si vede,
è il lavoro fatto ad arte che provvede
alla natura che si inventa nei polmoni
di un neonato un nuovo inno,
un linguaggio senza rime,
ma col petto spalancato alla
conquista della voce, spiegato come vela
oltre il confine, verso il sole,
come chiamare la vita per nome.

compositore:

Davide Ferrari

autore, poeta, attore

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