CronacaCultura e Musica

FAUST DI GOUNOD ALLA FENICE DI VENEZIA. Quando si ha voglia di approfondire il lavoro di un regista d’opera.

Non è facile al giorno d’oggi, pur dandosi da fare nei teatri più importanti d’Italia e dell’Europa operistica, incontrare regie che incontrino l’opportunità palese della loro esistenza… La dimostrazione sta nell’ultima stagione dell’Arena di Verona, ove la sostanziale assenza di incarichi registici è stata efficacemente sostituita da intelligenti partnership con istituzioni culturali italiche di rilievo globale: la mente del fruitore si spostava così, nel corso dell’esperienza, dalla musica e canto verso le suggestioni dei validissimi contenitori semiologici di Uffizi, Museo Egizio di Torino, Museo cinese ed etnografico di Parma, Musei Vaticani, evocati da videoproiezioni sullo sfondo, secondo una modalità comune a tutte le opere presentate al 98° festival lirico. Trionfo quindi di musica e voce, cose che i nostri nonni soprattutto chiedevano all’Opera, e che anche noi, malgrado la nostra ipertrofia visiva, manteniamo come fondamenta dell’intero Parnaso operistico.

Va detto, comunque, che proprio quel fitto intreccio di suggestioni estetiche che è l’opera lirica deve sempre essere tenuto vivo. Benissimo, quindi, lo slancio storico, con la filologia soprattutto librettistica e drammaturgico-letteraria, che è la relativamente facile via maestra… Ma è spostando l’accento drammaturgico che si chiede, doverosamente, alle regie contemporanee di attuare macrointerpretazioni che realizzino nuovi effetti catartici. Ed è proprio questa seconda strada che spesso porta a veri danni drammaturgici. Attenuanti? Di certo una: un percorso naturale di necessaria attualizzazione, di odierno veicolare musiche e voci per renderle vieppiù emblematiche dello spirito dell’arte oggi, nella contemporaneità. Tanto che, data l’esigenza o meglio l’opportunità delle nuove regie, alcuni teatri hanno optato per la costituzione di una figura interna di “drammaturgo”, preposto alla tutela del portato librettistico sul piano delle caratteristiche catartiche. Ed è spesso una buona idea davvero, se il destino del più grande spettacolo del mondo è di continuare a emozionare, meravigliare, stupire, come fu alle Prime storiche o ai primi reiterati cartelloni.

Così come mi sono soffermato altrove sulla potenza della elaborazione registica di Graham Vick prematuramente scomparso, così come mi è accaduto di notare le fragilità umane dell’obiettivamente grande Bob Wilson, così come sarei curiosissimo di vedere all’…Opera Mattew Barney, così come trovo incontestabile la semantica di Zeffirelli, stavolta, alla Fenice per questo Faust di Gounod, mi si è aperta una finestra mentale sul lavoro del bravo ispanico andorrano Joan Anton Rechi. Già conosciuto a Venezia per un recente, bel Fidelio, il diciamo pur catalano, con Faust ha sparato 2 colpi, di cui ho avuto modo di sperimentare il secondo, quello di questi giorni, col teatro ritornato quello di sempre, dopo quello “in platea” di epoca pandemica. E devo dire che, quando non c’è la figura di drammaturgo di cui sopra, ma il regista è bravo e preparato come Rechi, il risultato si raggiunge ugualmente e bene.

E il Teatro alla Fenice fa un figurone. La traslazione del Dottor Faust e del suo patto scellerato con Mefistofele dal mondo consunto di vecchiaia a quello fatato della celluloide, come si diceva una volta, cioè nel cinema, è una trovata che aggiunge senso, oltre a donare profondità correnti al testo. E quanto lo merita, quel libretto e quel lavoro! Perché il Faust di Gounod è un vero grande capolavoro musicale in primis, musica bellissima che Chaslin alla bacchetta ha magnificato. E anche l’interpretazione del celebre romanzo di Goethe, trasferito nella dimensione teatrale, necessariamente più vicina ai sentimenti forti del pubblico, ne fa uno spettacolo di grandissima vitalità. Si respira freschezza e concreto coordinamento tra la regia e la drammaturgia, tant’è che, con calibrato coraggio, Rechi realizza un moderato ma presente richiamo a un profilo attuale di “diavolo”, caratterizzato dall’ambiguità sessuale un po’ modello “gender”, con un passaggio non irrilevante dell’ottimo Alex Esposito en-travesti (alla Tim Curry nella guêpière di Frank N Furter di Rocky Horror Picture Show). Esposito è pienamente padrone del personaggio, e opera molto bene sul palcoscenico, come peraltro va detto dell’intero cast, che è per questo premiatissimo dal pubblico. Anche Carmela Remigio si è a mio avviso mossa molto bene, e ha utilizzato volutamente un timbro meno invasivo per connotare meglio una Marguerite costantemente in scacco, fino al sacrificio.

Un bel centro pieno per Fortunato Ortombina, che s’inserisce con gloria nella tradizione faustiana del più affascinante teatro d’Italia.

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