Nel trambusto delle guerre commerciali, dei dazi esplosivi e dei tweet fulminanti delle 3 di notte, l’amministrazione Trump è stata dipinta, quasi all’unanimità dai media globali, come il nemico dell’ordine economico mondiale. Un presidente imprevedibile, populista, isolazionista, che sembrava minacciare decenni di “stabilità costruita a tavolino”.
Ma a distanza di qualche anno, la realtà racconta una storia diversa.
Perché mentre l’Europa affondava nella palude dell’immobilismo tecnocratico, il “caotico” Trump riusciva, con tutti i suoi eccessi, a ridare fiato ai polmoni produttivi degli Stati Uniti. E mentre i suoi avversari si scandalizzavano per ogni provocazione su Twitter, Wall Street — tra una scossa e l’altra — continuava a crescere.
Incredibilmente, quel disordine apparente nascondeva una logica ferrea, difendere l’interesse nazionale con ogni mezzo.
Trump non voleva il caos, voleva solo che l’America smettesse di fare da bancomat al mondo globalizzato.
E così ha agito, con una strategia spietata quanto coerente, colpire i concorrenti sleali, proteggere le industrie strategiche, rinegoziare trattati obsoleti, e riportare la produzione in patria.
Una strategia che ha prodotto certamente reazioni scomposte, ma anche risultati concreti.
Il grafico che segue mostra un dato sorprendente: nonostante gli shock apparenti, l’economia americana ha retto, e anzi ha prosperato, con l’indice S&P 500 che ha assorbito ogni colpo, recuperato, e infine superato ogni livello precedente. Una lezione di resilienza che l’Europa, paralizzata da regole e compromessi, non è mai riuscita a imparare.
L’ S&P 500 sta per Standard & Poor’s 500 ed è un indice azionario che rappresenta le 500 principali aziende quotate negli Stati Uniti.
🇪🇺 L’Europa tra regole, austerità e stagnazione
Mentre gli Stati Uniti, sotto Trump, alzavano muri tariffari per difendere l’industria e rinegoziare i rapporti di forza globali, l’Europa continuava a celebrare il mito dell’integrazione come fine, non come mezzo.
Francia e Germania, garanti della linea europeista, hanno promosso una politica fatta di compromessi infiniti, parametri di bilancio astratti e dogmi tecnocratici. Il risultato? Un’Unione Europea incapace di reagire davanti alle sfide globali.
Mentre gli USA scommettevano sul reshoring e sull’indipendenza strategica, Bruxelles discuteva sulle etichette energetiche e sulla flessibilità del deficit dello 0,1%.
L’industria europea, nel frattempo, ha perso competitività, schiacciata da:
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Costo dell’energia fuori controllo
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Pressione fiscale asfissiante
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Dipendenza crescente da fornitori esterni (ricordate i chip? il gas? i vaccini?)
La sacralità del mercato unico, che doveva essere un volano per la crescita, è diventata una gabbia, soprattutto per i paesi più fragili, costretti a inseguire modelli pensati per Berlino, non per Atene o Roma.
E mentre Washington scendeva in campo per difendere i propri lavoratori, l’UE sembrava più preoccupata di non offendere la Cina, pur di salvaguardare il proprio status di “buon cittadino globale”.
🤯 Il paradosso
Il grande paradosso è questo; il populismo protezionista ha prodotto risultati economici concreti, mentre l’europeismo ortodosso ha prodoto invasioni, guerre e impoverimento sociale.
Ha ragione lui?
Forse è tempo di smettere di ridere di Trump e iniziare a prendere sul serio i numeri.
Mentre l’Europa si incarta su direttive, Green Deal e “governance multilivello”, l’America – pur tra urla e tweet – ha difeso il proprio lavoro, ha rilanciato la manifattura, e ha dettato legge sui mercati globali.
Chi è davvero fuori dalla realtà?
Chi impone dazi o chi crede ancora che una firma a Bruxelles valga più di una fabbrica aperta a Detroit?
Magari il populismo economico non è la cura.
Ma l’europeismo ideologico, ormai, assomiglia sempre più a una diagnosi terminale.