L’università dovrebbe essere un tempio del sapere, un luogo dove la cultura si coltiva nella libertà del pensiero, nel rigore scientifico, nella trasversalità delle idee. E invece, sempre più spesso, assistiamo a una deriva preoccupant, l’invasione della politica negli atenei italiani. Un esempio emblematico è quello dell’Università di Pavia, dove aule, cattedre e profili social di docenti e ricercatori sembrano ormai strumenti utilizzati per veicolare visioni politiche di parte, più che per educare, formare e stimolare il pensiero critico degli studenti.
Il caso della professoressa Mayra Paolillo, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze del Farmaco, ha acceso il dibattito. Non si discute il valore accademico del suo curriculum, né la qualità della sua ricerca scientifica. Ma è proprio questo il punto, figure istituzionali come la sua, finanziate con fondi pubblici, dovrebbero incarnare l’imparzialità, l’equilibrio, l’impegno per la conoscenza oltre ogni bandiera ideologica. Accade invece, troppo spesso, che docenti universitari sfruttino il proprio ruolo, il proprio seguito, e persino i social media, per propagandare convinzioni politiche personali, influenzando un pubblico – quello studentesco – che dovrebbe essere guidato alla libertà di pensiero, non all’adesione a un’ideologia.
Non è un attacco personale, ma una denuncia di un fenomeno ormai sistemico. Quando un docente, un ricercatore, un’assunta a tempo pieno in una struttura pubblica fa politica attiva, usa la propria posizione istituzionale per schierarsi pubblicamente, smette di fare cultura e comincia a fare proselitismo.
E qui si pone una questione fondamentale, che deve essere al centro del dibattito pubblico e accademico. Quanto è accettabile che chi lavora in un’università pubblica, finanziata con soldi dei cittadini, usi quel ruolo per fare militanza? La risposta, per chi crede nella scuola e nella cultura come pilastri della democrazia, non può che essere no.
Il parallelismo con i magistrati è calzante. Così come alla magistratura si richiede imparzialità, allo stesso modo dovrebbe valere per il mondo accademico. Le carriere pubbliche – e quella del docente universitario lo è a tutti gli effetti – dovrebbero essere esercitate con distacco dalle lotte politiche. Non per censura, ma per rispetto della missione educativa. Perché la cultura non ha colore, come l’ arte non ha partito e come l’educazione civica non si fa con slogan, ma con il confronto, il ragionamento, la pluralità delle voci.
In un momento storico in cui i giovani cercano punti di riferimento, chi insegna ha un dovere ancora più grande, quello di non influenzare, ma di lasciar loro libere le menti. Non dobbiamo portare i ragazzi verso una verità precostituita, ma offrire loro gli strumenti per costruirsi una propria visione del mondo. Usare la propria autorità accademica per fare propaganda politica è un abuso silenzioso e pericoloso.
L’Università di Pavia non è un caso isolato, ma è emblematico, serve una presa di coscienza collettiva, serve che il Ministero, i Rettorati, le Direzioni di Dipartimento stabiliscano una linea chiara. La linea del ” fuori la politica dalle aule universitarie, Dentro solo studio, ricerca, confronto.” Tutto ciò è una questione di Rispetto per gli studenti, per il Sapere, e per la stessa Democrazia.