Sta diventando un’abitudine, ormai. Una pessima abitudine. Non essere competitivi a livelli di Nazionale. Tutto sotto gli occhi di Arrigo Sacchi, attento osservatore del calcio (nazionale e internazionale), che ha provato a lungo a lavorare sul futuro, partendo dai giovani (in particolare quando era responsabile delle nazionali giovanili). Sacchi, cosa accade al calcio italiano?
“Nulla di nuovo, purtroppo. E’ un percorso lungo, che va avanti da un bel po’ e lo ha portato in questa situazione. A volte, sembra che il nostro calcio sia stanco, tanto da risultare fermo rispetto ad altre realtà”.
– Forse il calcio rappresenta per certi versi lo specchio del paese?
“Non c’è dubbio. Manca la voglia e la forza per rinnovarsi. Noi siamo lenti, quando non addirittura statici, mentre gli altri accelerano. Succede nel calcio come in altri settori”.
– Da dove bisognerebbe cominciare?
“Innanzitutto, dalla cultura sportiva: una robusta iniezione aiuterebbe il nostro calcio a ripartire, visto che in questo campo abbiamo sempre lasciato a desiderare. Quello dovrebbe essere il punto di partenza, il resto poi arriverebbe di conseguenza”.
– Passiamo al resto.
“C’è una base fondamentale, nel calcio come nella vita: i giovani. Una maggior attenzione verso la politica dei settori giovanili è qualcosa di basilare lo dimostra il grande calcio europeo: le squadre migliori spendono tanto, ma allevano anche molti calciatori in casa”.
– E’ una questione di risorse?
“Di attenzione, più che altro. I settori giovanili necessitano di risorse economiche, ma molto inferiori rispetto a quelle che si investono per comprare calciatori da fuori. E’ la programmazione che serve: al Chelsea, tanto per fare un esempio, dedicano dalle 16 alle 20 ore settimanali alle Academy in cui crescono i giovani, da noi si dedica molto meno tempo. E negli altri Paesi calcisticamente avanzati le strutture sono spesso all’avanguardia, anche quando parliamo di Academy. Da noi ho visto giocare partite di campionati giovanili su campi quasi indecenti”.
– Le strutture non dovrebbero essere una delle basi da cui partire?
“Certo, a tutti i livelli”.
“Nulla di nuovo, purtroppo. E’ un percorso lungo, che va avanti da un bel po’ e lo ha portato in questa situazione. A volte, sembra che il nostro calcio sia stanco, tanto da risultare fermo rispetto ad altre realtà”.
– Forse il calcio rappresenta per certi versi lo specchio del paese?
“Non c’è dubbio. Manca la voglia e la forza per rinnovarsi. Noi siamo lenti, quando non addirittura statici, mentre gli altri accelerano. Succede nel calcio come in altri settori”.
– Da dove bisognerebbe cominciare?
“Innanzitutto, dalla cultura sportiva: una robusta iniezione aiuterebbe il nostro calcio a ripartire, visto che in questo campo abbiamo sempre lasciato a desiderare. Quello dovrebbe essere il punto di partenza, il resto poi arriverebbe di conseguenza”.
– Passiamo al resto.
“C’è una base fondamentale, nel calcio come nella vita: i giovani. Una maggior attenzione verso la politica dei settori giovanili è qualcosa di basilare lo dimostra il grande calcio europeo: le squadre migliori spendono tanto, ma allevano anche molti calciatori in casa”.
– E’ una questione di risorse?
“Di attenzione, più che altro. I settori giovanili necessitano di risorse economiche, ma molto inferiori rispetto a quelle che si investono per comprare calciatori da fuori. E’ la programmazione che serve: al Chelsea, tanto per fare un esempio, dedicano dalle 16 alle 20 ore settimanali alle Academy in cui crescono i giovani, da noi si dedica molto meno tempo. E negli altri Paesi calcisticamente avanzati le strutture sono spesso all’avanguardia, anche quando parliamo di Academy. Da noi ho visto giocare partite di campionati giovanili su campi quasi indecenti”.
– Le strutture non dovrebbero essere una delle basi da cui partire?
“Certo, a tutti i livelli”.
Ricordiamo che Arrigo Sacchi entrò nel settore giovanile del Cesena nel 1977. Proprio in quegli anni conobbe un giocatore piccolo e intelligente, nato a Esch Sur-Alzette, in Lussemburgo, da genitori italiani: Daniele Zoratto, un campione destinato a una lunga militanza nel Brescia, prima di divenire il faro del Parma dei miracoli.
