Attualità

Per il 2022 l’augurio è che l’emergenza si trasformi in una risorsa

Sta terminando un anno, quello targato 2021, che certamente ci attendevamo tutti più prospero e positivo di quanto non si sia poi dimostrato. Certamente sempre meglio del terribile 2020 dove ha avuto inizio la pandemia Covid 19 che ha letteralmente ed irreversibilmente cambiato il mondo e con esso il nostro modo di vivere. Ma resta il fatto che ci troviamo ancora dentro “piedi e scarpe” ai tanti guai sanitari, psicologici, economici, sociali ed umani, provocati da uno tsunami tanto inaspettato quanto colossale. Qualcuno (più realista forse, che pessimista) parla oramai di convivenza facendo intendere che il destino dell’intera umanità sarà quello di adeguarci a questo dramma senza fine. Come sarà la nostra vita, che se anche sarà salva grazie ai vaccini, dovrà per forza fare giornalmente i conti con l’implacabile Coronavirus? Che scuola avremo? Ospedali, cliniche e pronto soccorso come ci cureranno? Come cambierà (e di fatto lo sta già facendo) il mondo del lavoro? E giù via, con tante e tante altre domande. Per quanto riguarda l’attività scolastica riteniamo che dovrà essere necessariamente a geometrie e geografie variabili, vale a dire che aprirà solo se, quando e dove ci saranno le condizioni per farlo e appena si renderà necessario si chiuderà di nuovo. Lo sforzo didattico di dodici ultimi mesi – l’enorme esperimento della didattica a distanza fai-da-te creato da presidi e prof – sarà servito solo se la scuola riuscirà a immaginare soluzioni diverse e flessibili per gestire la sua missione in modo più moderno e adatto ai tempi e se saprà far tesoro di questa apocalisse per essere pronta per ogni altra situazione inaspettata. Tutto sarà possibile solamente ascoltando anche pedagogisti, psicologi ed esperti e confrontandosi con le scelte degli altri ministri dell’Istruzione europei, visto che il coronavirus è un problema comune da cui si può uscire solo con soluzioni condivise. E passiamo alla medicina. Sebbene l’epidemia sia ancora in corso, volendo dare uno sguardo al futuro prossimo che cosa possiamo aspettarci che cambi nella gestione della salute? Fino a che non avremo un vaccino o una cura completamente risolutiva ( una chimera, forse) dovremo rispettare le attuali regole di distanziamento e di protezione. Non crediamo che si otterranno dei miglioramenti sostanziali se non sarà rivista la gestione del Servizio Sanitario Nazionale, il quale non potrà continuare a girare solo sull’ospedale come perno principale. Ne saranno necessari altri due: uno costituito da una medicina territoriale organizzata, fatta di distretti, ambulatori, assistenza domiciliare, residenze sociosanitarie, che in alcune parti del Paese non esistono proprio o sono molto insufficienti e un altro rappresentato da tutto quello che potrà essere fatto a casa. E anche il ruolo dei medici di medicina generale dovrà essere ripensato all’interno di un sistema come questo che testimonia i limiti della non omogeneità perché se continueremo ad avere, di fatto, 21 realtà regionali diverse come ora avremo risposte troppo differenziate per essere efficaci. Pensiamo che ci dovremo riorganizzare innanzitutto con ospedali Covid in modo che i malati siano trattati senza rischio di contagiare altri settori dell’ospedale e, poi, da lì, altrove. La crisi sanitaria vissuta ha dimostrato che, comunque, era necessario averne più di quelli di cui disponevano, e quindi molti rimarranno. Gli altri potranno essere convertiti a terapia sub-intensiva, di cui comunque c’è necessità. Se ci sarà una volontà politica forte ci saranno dei cambiamenti. A livello europeo c’è da chiedersi, per esempio, se ha senso l’attuale organizzazione, senza un vero ministro della salute europeo che coordini le politiche sanitarie comunitarie. A livello mondiale bisognerebbe invece attribuire all’OMS non solo potere normativo ma anche operativo, specie per aiutare gli Stati più in ritardo. Ci possiamo inoltre aspettare un aumento del ricorso alla telemedicina. Sul fronte dell’occupazione sono avvenute le rivoluzioni più radicali. Il lavoro insomma è già cambiato ed è stato il primo cambiamento, forte, immediato, allo scoppio dell’emergenza sanitaria. Gli uffici si sono obbligatoriamente svuotati e si sono trasferiti nelle nostre case, in un angolo del salone, della cucina, del terrazzo o della camera da letto. Facendo schizzare in alto l’asticella dello smart working, strumento usato fino a poco tempo fa da una modestissima fetta di imprese. Chi è rimasto in azienda, quelle rimaste aperte durante il lockdown, si è munito di mascherine e guanti, non ha usato l’ascensore, si è allontanato dai colleghi, ha attuato insomma le classiche misure di sicurezza che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi mesi definendole tristemente «distanziamento sociale». E spostiamoci all’interno della nostra cara Europa. Forse non dovremmo sorprenderci se l’Unione europea non ha fin qui giocato un ruolo di primo piano nella risposta globale al Covid-19. Quando la minaccia ha un carattere esistenziale, governi e policy maker tendono infatti a ripiegare su ciò che conoscono meglio, che in Europa significa semplicemente lo Stato nazionale. Ma la pandemia e le sue devastanti conseguenze economiche non sono risolvibili nel tradizionale paradigma, ancora debitore del sistema di Vestfalia, la pace che nel 1648 mise fine alla Guerra dei Trent’anni. Il Coronavirus può quindi diventare l’”asteroide” caduto sul nostro pianeta, in grado di forzare gli europei a prendere con maggiore determinazione e velocità la strada della “ever closer union”, all’insegna di una solidarietà più profonda e concreta. Con questa speranza mi congedo dai nostri tanti lettori sempre in costante aumento. A nome mio e di tutta la Redazione dell’Eco di Savona e provincia, de l’Eco dello Sport e de L’Eco di Pavia, colgo l’occasione per porgere Buone Feste ed un abbraccio (per ora ancora virtuale) a tutti.

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