Politica

Ricostruzione e analisi

L'opinione del politologo Franco Astengo

Mi permetto di prendere spunto da una ricostruzione della vicenda politica italiana negli ultimi 20 anni che si legge in un articolo di Marco Bentivogli comparso sabato 12 dicembre su “Repubblica”. Scrive Bentivogli: “ La transizione italiana, si diceva un tempo, era bloccata per alcuni per l’assenza del PCI al governo, per altri per l’esistenza di un partito comunista troppo grande per stare in Occidente. Dopo Tangentopoli arriva il ‘94. Polarizzazione pro o contro Berlusconi. Quest’ultimo cade con un accordo Pd con la Lega. Poi la Lega torna con Berlusconi, che poco prima la stessa definiva “mafioso”. Arriva un quasi default, i tecnici. Il centro sinistra, il Nazareno. Poi arriva il populismo. Il nemico è la casta”. In questa ricostruzione si rileva un non lieve peccato di omissione: probabilmente il motivo di ciò sarà stato dovuto a esigenze di spazio e dalla necessità di esprimersi “a volo d’uccello”, ma l’omissione resta ed è molto pesante. L’autore (oltre a dimenticare la S nella sigla di PD al momento della formazione del governo Dini) tralascia di ricordare il non breve e complesso passaggio nel quale, durante il ventennio berlusconiano (come il periodo 1994 – 2011 viene riassunto con una sbrigativa sintesi da parte di certe fonti giornalistiche ) il centro sinistra ha tenuto il governo per un’intera legislatura, tra il 1996 e il 2001, pur avvicendando tre presidenti del consiglio (e presentandone candidato un quarto), e lo spicchio compreso tra il 2006 e il 2008 con il governo Prodi “della mortadella” caduto poi per varie e complicate ragioni. A seguire la “vocazione maggioritaria” di Veltroni e la clamorosa sconfitta alle elezioni del 2008: il prosieguo può essere rimandato alla ricostruzione di Bentivogli. E’ possibile allora affermare che la rimozione della ricostruzione di fase così come è stata appena indicata possa essere avvenuta non tanto e non solo per dimenticanza casuale, ma per l’assenza di una riflessione specifica su quel periodo (assenza registrata non certo per responsabilità specifica dell’autore dell’articolo citato)? Una riflessione che dovrebbe partire dalle modalità di scioglimento dei grandi partiti di massa verificatasi a cavallo dei primi ‘90 e avvenuta per almeno 3 motivazioni di fondo: non solo Tangentopoli, ma anche la caduta del Muro di Berlino e il dettato imposto dalla stipula del trattato di Maastricht con le esigenze di fronteggiare il rischio di default derivanti dalla necessità di mantenere l’obiettivo della moneta unica. Sarebbe interessante lavorare non tanto e non solo sull’analisi dell’azione di governo svolta dal centro – sinistra, dell’abbraccio al blairismo (mentre adesso si riscopre la necessità del “campo ideologico della sinistra”), della partecipazione alla guerra nei Balcani, della modifica del titolo V della Costituzione (punto di partenza della difficile situazione centro/periferia che stiamo vivendo oggi in una delle fasi più delicate nella vita della Repubblica) e di tanti altri passaggi controversi. Così come sarebbe necessaria un’analisi più puntuale delle mutazioni avvenute a livello di governo tra il 1996 e il 2001 con la caduta del governo Prodi, i successivi esecutivi guidati da D’Alema e Amato in quadro di scomposizione / ricomposizione del quadro politico, non solo a sinistra se ricordiamo l’improvvisato soccorso da parte degli “straccioni di Valmy” per evitare le elezioni a metà cammino (oltre alla seconda scissione “governista” subita a quel punto in sei anni di esistenza da Rifondazione Comunista). L’elemento di analisi più pregnante dovrebbe riguardare l’esito della ristrutturazione del sistema dei partiti: soprattutto al riguardo della modificazione attuata nella fase di liquidazione del PCI (a mio giudizio vero punto cardine dello squilibrio del sistema che si reggeva sulla “conventio ad excludendum”) con l’adozione dello slogan di “sblocco del sistema politico” e di assenza, in quella fase, di definizione di un processo di natura ideologica che ponesse, a sinistra, il tema di una nuova soggettività unitaria. I promotori del processo di liquidazione del PCI procedettero per “spirito di scissione”, cercando di adeguare la forma partito alle modificazioni in atto secondo la logica del “partito pigliatutti” e opponendo, nella scoperta del maggioritario, il meccanismo delle coalizioni ( in luogo della capacità di proposta egemonica della soggettività politica) alla novità della personalizzazione e del “partito azienda” imperniato sulla figura del Capo. Lo scioglimento di DC e PSI avvenne con modalità diverse: la DC si sciolse frantumandosi secondo la logica correntizia, nel momento in cui la gran parte del proprio elettorato trovava insediamento altrove; nel PSI prevalsero le logiche della “revanche” rispetto alla stagione di sostituzione della politica da parte della magistratura al termine della quale anche buona parte dell’elettorato socialista (come di quello democristiano) avrebbe trovato riparo sotto l’ombrello di Forza Italia, della quale sono già state ricordate le caratteristiche di partito azienda e di personalizzazione. Forse sia il gruppo dirigente democristiano come quello socialista non erano riusciti a interpretare le modificazioni avvenute nei rispettivi blocchi sociali di riferimento a cavallo degli anni’80, nel corso dei quali si era aperta una fase di transizione non tanto sul piano politico ma su quello del costume e degli stili di vita per intere generazioni. Nella sostanza, in quel frangente, fu mancata l’occasione della alternanza vera tra due diversi blocchi politici e di rappresentanza sociale. Forza Italia, nella figura del Capo, diede un formidabile impulso all’adeguamento complessivo del sistema alla modalità della “democrazia recitativa”, subendo il meccanismo della comunicazione di massa quale fattore egemonico e perdendo così per strada l’idea che un partito dovesse reggere sulla visione ideale e sul radicamento strategico (un altro momento poco analizzato, sotto questo aspetto, riguarda l’esito del referendum sulle TV del 1995). In sostanza era ormai mutato il rapporto tra voto di appartenenza, voto di scambio, voto d’opinione e l’esito del referendum suffragò il completamento di quel fenomeno. La destrutturazione che seguì a quella fase di subalternità strategica del sistema dei partiti alla logica della comunicazione, riguardò ben inteso tutti i soggetti (da AN che finì con l’inchinarsi alla supremazia della personalizzazione e alla logica del Capo confluendo nel PDL, fino a Rifondazione Comunista capace di nascondere dietro a un illogico movimentismo governista la stessa identica acquiescenza ai meccanismi della post – idealità). L’omissione rilevata nell’articolo di Bentivogli avrà sicuramente rappresentato un fatto casuale, ma si può comunque pensare ad un segnale di carenza d’analisi nella ricerca delle fonti della situazione attuale nella quale si registra la scomparsa della sinistra nel sistema politico italiano.

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