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MAMMA, HO PERSO IL CELLULARE: CRONACHE DI VITA DIETRO LO SCHERMO E UNA PARTITA ANCORA TUTTA DA GIOCARE

L’articolo di oggi è il frutto di una ispirazione di tipo forzato. La sottoscritta vive da circa 24 ore senza l’uso dello Smartphone. Niente telefono di scorta, né seconda scheda di emergenza. E per una che con il cellulare ci lavora quotidianamente, l’errore è comunemente classificabile tra i più stupidi, non avendo provveduto a tempo debito al cosiddetto “strumento di salvataggio”. Ed è purtroppo vero: paradossalmente oggi di queste cosiddette “stupidità” non possiamo più permettercene. Attualmente, anche per una serie di password che giacciono in maniera sprovveduta nel blocco note del cellulare ormai completamente andato, giaccio più o meno beata nel limbo parallelo al mondo virtuale, diventato più reale del reale e mi limito a immaginare ciò che colleghi e amici possono ipotizzare di me in queste “preoccupanti” ore di silenzio. Certo, ho il Pc ed esistono le mail per l’invio di articoli e comunicazioni urgenti, esistono numeri telefonici di marito e figlia con i contatti più stretti in comune, e – volendo – esiste anche un telefono fisso in casa, ormai classificabile come vecchio retaggio o mero suppellettile, ammesso che qualcuno ne conservi ancora il numero che in verità nemmeno io più conosco a memoria. Le dashboard di Facebook e di LinkedIn sono da 24 ore in astinenza, anoressiche: ed è questo il dramma del giorno. “Tagliata fuori dal mondo”, continuo a pensare, tra stupore ed ondate intermittenti di ansia (ebbene, sì, ansia, proprio quella).

“Tagliata fuori”. Fuori dal mondo lavorativo, dalla mia cerchia di contatti da libera professionista. Ebbene sì, chi lo avrebbe mai detto che saremmo stati sottoposti anche a questo tipo rischio ansiogeno da nuove astinenze.

Ed è proprio in queste ore che, costretta ad attivare un altro tipo di connessione, quella mentale, mi salta d’improvviso in mente un titolo di giornale di qualche mese fa, l’ennesimo, direi, sul tema. Giovani e nuove dipendenze: «La generazione social vive una vita parallela». «Dobbiamo aiutarli a gestire le emozioni». E ancora: “Settimana prova in una scuola senza cellulare: il vivere senza social ha chiamato in causa parole ricorrenti come vuoto, disorientamento, niente”.

E allora: sempre e solo questa new generation? Beh, siamo onesti e lo dico dalla bolla di isolamento analogico in cui sono piombata da ieri pomeriggio: se si allargasse lo spettro delle nuove dipendenze a tutta la società – non solo al ragazzino che va al pronto soccorso perché si è fatto male in casa a causa del visore per la realtà aumentata – male non si farebbe. Anzi. Non nascondiamoci dietro a un dito.

La freelance senza cellulare e l’adolescente che vive una realtà parallela attraverso il visore, sono solo due degli innumerevoli esempi tratti dal quotidiano che offrono una riflessione sulle nuove dipendenze e sui cambiamenti comunicativi ed esistenziali indotti dai new media. E poi c’è anche il temuto fenomeno delle nuove ludopatie. Oggi il gioco è soprattutto online e in buona parte sommerso. Si comincia a parlare di dipendenza con sei ore di gioco, un gioco che si sposta sempre più dai casinò fisici a quelli virtuali erti tra le nostre innocenti e pulite mura domestiche: ed è questa la più pericolosa, forse, delle dipendenze in quanto trascina con sé la più insidiosa tra le falle comportamentali.

In maniera ancora più profonda e strutturale, possiamo affermare che la vita on line, quella cosiddetta “parallela” ha modificato sì nelle nuove generazioni il modo di vivere, di comunicare, di esprimersi linguisticamente, sostituendo i modus espressivi naturali e spontanei del passato con una comunicazione sempre più essenziale, paratattica e veloce, ma indubbiamente ha anche creato una serie di abitudini che – e questo è molto interessante, gli adulti dell’analogico subiscono prima ancora di comprendere pienamente.

Siamo tutti chiamati alla riflessione.

“I social sono” come dice Umberto Galimberti “un ambiente in cui i ragazzi vivono e agiscono in un’età in cui il cervello muta. I videogiochi sono pensati per accendere e facilitare reazioni dopaminergiche, ovvero sono strutturati far provare piacere. E la ricerca di quel piacere innesca dipendenza. E per evitare di cadere nel patologico è allora necessario attivare azioni di riflessione e consapevolezza. Ma serve tempo, educazione e figure che possano aiutare i ragazzi a gestire le emozioni».

Proviamo a spiegare meglio le parole di Galimberti.

Cosa fare di fronte ad orde di esseri umani che sfilano spesso quasi tutti silenziosi a testa bassa sull’immancabile schermo luminoso che ne scandisce e ne accompagna le giornate? Non si dialoga più nelle sale d’aspetto dei medici, non ci si guarda più in faccia al bar o in metropolitana. Ed eccola poi la vittima più emblematica: la generazione Z, detta anche Centennial, Digitarian, Gen Z, i cosiddetti nativi digitali (1997-2010), figli della generazione X altrettanto pesantemente colpita dalla scoperta e dall’avanzata del regno virtuale (1965-1980). “Dentro a quel piccolo schermo dal potere infinito, affascinante e spaventoso al tempo stesso però ci siamo persi un pò tutti. Il concetto di telefono è andato smarrito dietro a tutte quelle magnifiche, sfavillanti applicazioni che promettono magie digitali senza precedenti. Filtrano, abbelliscono, cambiano, raccontano, informano, creano un mondo attraente e diverso da questo” – spiega Gianluigi Cavallo, Digital Strategist & Director di Miles33, azienda leader italiana nella fornitura di sistemi informativi nel settore dell’editoria, produzione e distribuzione editoriale cartacea e digitale. “Dietro ad ogni icona” spiega Cavallo “sprechiamo spesso il nostro tempo, ubriacandoci di nuove endorfine e misere ricompense temporizzate da algoritmi famelici di attenzione, dati e statistiche. Siamo ormai illimitatamente connessi, collegati al più potente strumento di comunicazione e distrazione di massa mai creato prima. Un sistema capace di farci sentire insieme, isolandoci a vicenda e creando situazioni di benessere, appagamento e piacere artificiali.”

Siamo di fronte ad un declino o ad una crescita? Chi ha causato tutto questo? Beh, certamente l’immensa e complicata macchina del profitto. E così ci ritroviamo ad essere la prima generazione per cui la distinzione tra online e offline, tra vita reale e vita virtuale, ha perso di significato e in cui l’assenza di connessione si rivela un potentissimo elemento di disturbo, arrivando a generare vere e proprie crisi di astinenza, scatenando nervosismo e irrazionalità. La maggior parte del tempo nel mondo virtuale viene speso tra i due colossi TikTok e Instagram, piattaforme sempre più utilizzate dai brand che desiderano incrociare un target giovane e anche meno giovane di consumatori più che di semplici utenti. Prima ancora che App della socialità virtuale in senso stretto, esse possono essere considerate App del piacere visivo, dell’uso e consumo immediato, App dell’intrattenimento, dell’appagamento e del piacere virtuale. Piacere dello stare connessi, investendo anzi il più delle volte sprecando più o meno inconsapevolmente del tempo come consumatori passivi, bersagli di consumo pilotato dai cosiddetti cookies o annunci personalizzati, sostando in una dimensione parallela che fa spesso rima con identità di tipo parallelo.

La risposta a questa nuova, intricata ed insidiosa fenomenologia va data con delicatezza, sempre; ma come sempre, essa è sempre la stessa. E’ la classica, più elementare, diretta e semplice tra le risposte: buon senso. Che è poi senso del limite, della misura. Il che non equivale certo alla demonizzazione dei mezzi che ci regalano il progresso. Semmai, all’attenzione per il delicato passaggio da effettuare tra evoluzione e alienazione, quest’ultima sì da evitare. Grazie alla social life, siamo ormai tutti di fronte a ciò che ha permesso e ha concesso multifunzionalità e multicomunicativismo al nostro mondo; siamo diventati tutti, grazie ai movimenti social, onnipresenza e attenzione multisfaccettata … non dobbiamo gettare certo tutto via alle ortiche. Solamente, è necessario il buon senso critico. Quello che, in altre parole, ci permette ancora di dire chi siamo davvero, che ci permette di declinare la nostra unicità ed originalità nel bel mezzo di uno tsunami omologante e schiacciante, il quale – paradossalmente – grazie anche alle leggi spietate dell’algoritmo, ci chiude comunque in cerchie sempre ristrette, omologando comportamenti, scelte e pensieri e illudendoci di aver chiuso questo mondo in una sfera magica in cui conosciamo e riconosciamo ormai tutti, in un luogo non luogo in cui il sapere è chiuso in una multidisciplinarietà che non è quasi mai piena competenza o piena specializzazione.

Togliamo il velo allora. Non sono i Social ad aver reso più piccolo e maneggevole il mondo, non è il materiale visivo e sonoro presente su Youtube a fare dell’uomo medio un filosofo o un critico. La vastità del mondo è tale quando la sua larghezza va di pari passo con la sua lentezza, quando la sua sorpresa fa rima con densità e non con effimero, quando la sua scoperta fa rima con fatica. Il noi (io e tu connessi) riscopre il proprio valore quando si ha difronte semplicemente uno sguardo da interpretare per la strada e non dietro a uno schermo in collegamento Zoom. L’io scopre la sua (spaventosa) unicità solo nel silenzio.

Abbiamo perso il senso del tempo e dello spazio. Non aspettiamo una crisi valoriale intergenerazionale – peraltro ormai già pienamente in atto – per ritornare a collocarci uomini in mezzo agli uomini e non macchine in mezzo ad altre macchine.

Dominiamo noi stessi, conosciamo noi stessi. La regola vale da tempo immemore. Come il buon senso. Non accada per la prima volta che una scoperta o una rivoluzione nasca e si sviluppi per dominarci e per renderci peggiori. Siamo ancora nel bel mezzo di una partita a nostro favore. Da dentro a fuori lo schermo. Tutta da giocare.

 

 

 

 

 

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